Di fronte alle difficili sfide e alle varie crisi che attualmente colpiscono duramente la Chiesa, anche in Polonia, Papa Francesco ci invita a non cedere allo sconforto e alla tristezza. Siamo nati dal Vangelo. Siamo un popolo di speranza. Il dubbio, la presunzione e l’amarezza sono una strada che non porta da nessuna parte, hanno scritto i Vescovi polacchi nella Lettera ai sacerdoti per il Giovedì Santo 2022.

Nella Lettera i Vescovi hanno sottolineato che il valore del dono della pace di Cristo per il mondo si è reso evidente in tutta la sua forza negli avvenimenti recenti oltre il nostro confine orientale. „Siamo colpiti dall’enormità della devastazione della guerra e dalla sofferenza di persone innocenti” – hanno scritto i Vescovi. Hanno aggiunto che „in mezzo alle drammatiche circostanze, abbiamo visto il grande cuore degli uomini e delle donne polacchi che, ispirate dall’amore di Cristo, hanno spalancato le loro braccia a coloro che fuggono davanti allo scoppio della guerra”.

I Vescovi hanno anche espresso la loro gratitudine ai sacerdoti per il fedele adempimento del loro ministero nella Chiesa. „Gli ultimi due anni sono stati segnati da una pandemia e da una guerra a Est. Vi ringraziamo per essere rimasti nelle comunità di fede, nonostante le molte limitazioni e avversità per la celebrazione instancabile dei sacramenti, l’annuncio del Vangelo, il ministero tra i malati e le persone sole, la presenza negli ospedali, nelle case di accoglienza, nelle case di cura e nelle carceri” – hanno sottolineato.

Ufficio Stampa della Conferenza Episcopale Polacca

Pubblichiamo il testo integrale della Lettera:

 

Lettera dei Vescovi polacchi ai sacerdoti per il Giovedì Santo 2022

„L’Eucaristia dona la vita” – „Inviati nella pace di Cristo”

Cari Confratelli in Cristo Sacerdote,

da quel memorabile giorno, in cui nostro Signore Gesù Cristo ha donato la sua vita sulla Croce per la salvezza del mondo, come Chiesa, con trepidazione, rendiamo presente nell’Eucaristia questo grande mistero. Compiamo ciò che ci hanno consegnato gli Apostoli. Risaliamo alla loro memoria del Cenacolo. È proprio lì, di fronte all’imminente ora nella quale „Cristo nostra Pasqua, è stato immolato” (1 Cor 5, 7), che ha spezzato il Pane per i discepoli e ha dato loro da bere il Calice. Ripetiamo questi segni sacramentali in obbedienza alla parola del Signore: „Fate questo in memoria di me!” (1 Cor 11, 24-25). Non ci è estranea l’esperienza dell’apostolo Pietro, che con imbarazzo osservava il Maestro che gli lavava i piedi sporchi. Stiamo sempre sull’altare del Signore, vergognandoci del nostro essere peccatori. Ripetiamo con Pietro: „Signore, tu sai tutto” (Gv 21,15 ss). Ci sentiamo piccoli davanti all’amore puro e disinteressato di Dio. Ma allo stesso tempo, la fedeltà e la bontà di Gesù ci permettono di attendere la grazia, la consolazione, il cambiamento e la salvezza, perché, come sottolinea Papa Francesco:

„L’Eucaristia, sebbene costituisca la pienezza della vita sacramentale, non è un premio per i perfetti ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli” (Francesco, Evangelii gaudium, 47).

In queste ultime settimane abbiamo ascoltato con commozione l’umile voce del Papa emerito Benedetto XVI, che ha confessato:

„Mi colpisce sempre più fortemente che giorno dopo giorno la Chiesa ponga all’inizio della celebrazione della Santa Messa – nella quale il Signore ci dona la sua Parola e sé stesso – la confessione della nostra colpa e la richiesta di perdono. Preghiamo pubblicamente il Dio vivente di perdonare la nostra colpa, la nostra grande e grandissima colpa. È chiaro che la parola ‘grandissima’ non si riferisce allo stesso modo a ogni giorno, ad ogni singolo giorno. Ma ogni giorno mi pone la domanda se anche oggi io non debba parlare di grande e grandissima colpa. E mi dice in modo consolante che per quanto grande possa essere oggi la mia colpa, il Signore mi perdona, se con sincerità mi lascio scrutare da Lui e sono realmente disposto al cambiamento di me stesso» (Benedetto XVI, Lettera circa il rapporto sugli abusi nell’Arcidiocesi di Monaco e Frisinga).

In mezzo alla nostra fragilità, portando in noi stessi la reticenza di Pietro al gesto umile di Cristo Servo, imbarazzati dal suo amore „fino alla fine” (Gv 13,1), ripetiamo con i cristiani di Abitene: „Sine dominico non possumus!”. Sì, è vero, non possiamo vivere senza il dono del Signore, senza il giorno del Signore. Come i nostri fratelli e le nostre sorelle di Abitene, che a cavallo tra il III e il IV secolo hanno attinto la forza della testimonianza dal Sacrificio del Signore, così noi oggi stiamo di fronte a noi stessi e al mondo con questa confessione e proclamiamo che senza l’Eucaristia non c’è vita in noi: „La Chiesa vive grazie all’Eucaristia” (cfr S. Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucaristia, 1).

Da tre anni, nella Chiesa in Polonia, percorriamo la strada tracciata dal programma pastorale realizzato con il motto „L’Eucaristia dona la vita”. Nella prima tappa di questo cammino, abbiamo visto la S. Messa come il „Grande mistero della fede”. L’anno successivo per ravvivare la spiritualità eucaristica abbiamo tratto ispirazione dalle parole: „Raccolti per la Santa Cena”. Ora vogliamo concentrarci sugli effetti dell’Eucaristia nella nostra vita quotidiana, seguendo le parole di Gesù nel nostro cammino interiore: „Colui che mangia di me vivrà per me” (Gv 6,57). Nell’Esortazione postsinodale Sacramentum caritatis Papa Benedetto XVI ha scritto:

„Queste parole di Gesù ci fanno capire come il mistero ‘creduto’ e ‘celebrato’ possegga in sé un dinamismo che ne fa principio di vita nuova in noi e forma dell’esistenza cristiana» (Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, 70).

Dal Santissimo Sacrificio scaturisce la missione cristiana, che si esprime pienamente nelle parole „Inviati nella pace di Cristo”. Si tratta del fatto che l’Eucaristia profondamente vissuta ci alimenti nella nostra vita quotidiana con la forza e l’amore di Cristo, e allo stesso tempo predisponga a portare abbondanti frutti di fede. Questo è particolarmente importante per noi sacerdoti.

Forma eucaristica della vita e del ministero sacerdotale

Nella Lettera ai Romani, S. Paolo scrive:

„Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale” (Rm 12, 1).

Papa Benedetto XVI interpreta questa indicazione dell’Apostolo delle Nazioni come segue:

„In questa esortazione emerge l’immagine del nuovo culto come offerta totale della propria persona in comunione con tutta la Chiesa” (Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, 70).

Offrire il sacrificio qui cessa di significare – come avveniva nel culto dell’Antico Testamento – „la morte della vittima”. Ora, alla luce della Pasqua di Cristo, comprendiamo che l’offerta è la vita della vittima non la sua morte. La nostra vita e il nostro ministero devono diventare „un sacrificio gradito a Dio”. Questo deve commuoverci profondamente. Si può dire che S. Paolo ci chiama a una nuova antropologia in cui la vita di un uomo di fede, e soprattutto la vita di un sacerdote, diventa, in qualche modo liturgia incarnata, abbracciando l’intera persona in tutte le dimensioni dell’esistenza.

Come può un battezzato, specialmente un sacerdote, „offrire il proprio corpo come sacrificio vivente e gradito a Dio” nella vita quotidiana? Sicuramente ci sono diversi aspetti della scuola di vita e di fede eucaristica che i discepoli di Cristo hanno scoperto nel corso dei secoli. Quest’anno desideriamo proporvi, Cari Confratelli, il cammino di riflessione che ha aperto S. Giovanni Paolo II nella sua ultima Lettera ai sacerdoti del 2005:

Mi lascerò „guidare dalle parole dell’istituzione eucaristica, quelle che ogni giorno pronunciamo in persona Christi, per rendere presente sui nostri altari il sacrificio compiuto una volta per tutte sul Calvario. Da queste parole emergono indicazioni luminose di spiritualità sacerdotale: se tutta la Chiesa vive dell’Eucaristia, l’esistenza sacerdotale deve avere a speciale titolo una „forma eucaristica”. Le parole dell’istituzione dell’Eucaristia devono perciò essere per noi non soltanto una formula consacratoria, ma una „formula di vita” (S. Giovanni Paolo II, Lettera ai sacerdoti per il Giovedì Santo 2005, 1).

La visione della vita sacerdotale, che deve tendere verso la piena sintonia con ciò che il sacerdote pronuncia sul pane e sul vino quando rende presente il mistero di Cristo è il desiderio più profondo della Chiesa. Basti ricordare il rito dell’ordinazione sacerdotale, durante il quale il vescovo si rivolge ai candidati con la domanda:

„Vuoi essere sempre più strettamente unito a Cristo, Sommo Sacerdote, che come Vittima pura si è offerto al Padre per noi, consacrando voi stessi a Dio insieme con Lui per la salvezza di tutti gli uomini?”

Facendo affidamento solo sulle predisposizioni umane, la realizzazione di questa sfida diventa impossibile. Pertanto, il candidato risponde: „Lo voglio, con l’aiuto di Dio”.

Il Giovedì Santo ritorniamo con commozione su questa domanda, perché, con una rinnovata memoria, possiamo proseguire il nostro cammino con un fervore ancora maggiore. Siamo confortati e rafforzati dal fatto che non dobbiamo continuamente riscrivere da soli il programma del ministero sacerdotale. Infatti lo riceviamo in tutta la sua attualità durante la celebrazione della Santa Messa:

„Così i presbiteri, unendosi con l’atto di Cristo sacerdote, si offrono ogni giorno totalmente a Dio, e nutrendosi del Corpo di Cristo partecipano dal fondo di sé stessi alla carità di colui che si dà come cibo ai fedeli” (Concilio Vaticano II, Presbyterorum ordinis, 13).

Cari confratelli, in questo giorno speciale in cui entriamo con Gesù nel Cenacolo per celebrare „il sacro banchetto della comunione al corpo e al sangue del Signore” (S. Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucaristia, 12), ricordiamo le parole della consacrazione che pronunciamo sul pane durante ogni Eucaristia:

„Nella notte in cui fu tradito, egli prese il pane, ti rese grazie con la preghiera di benedizione, lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli, e disse:

«Prendete, e mangiatene tutti:

Questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi.

(…) Fate questo in memoria di me”.

„Nella notte in cui fu tradito”

Di fronte alle difficili sfide e alle varie crisi che attualmente colpiscono duramente la Chiesa, anche in Polonia, Papa Francesco ci invita a non cedere allo sconforto e alla tristezza. Siamo nati dal Vangelo. Siamo il popolo della speranza. Il dubbio, la presunzione e l’amarezza sono una strada che non porta da nessuna parte:

„La crisi è un fenomeno che investe tutti e tutto. È presente ovunque e in ogni periodo della storia (…). Si manifesta come un evento straordinario, che causa sempre un senso di trepidazione, angoscia, squilibrio e incertezza nelle scelte da fare. (…) Chi non guarda la crisi alla luce del Vangelo, si limita a fare l’autopsia di un cadavere: guarda la crisi, ma senza la speranza del Vangelo, senza la luce del Vangelo”. (Francesco, Discorso ai Membri del Collegio Cardinalizio e della Curia Romana per la presentazione degli auguri di Natale 2020, 5-6).

Pur vivendo diverse crisi della vita: ecclesiale, sociale e personale, vale la pena rafforzarci attraverso l’atteggiamento del nostro Maestro. Celebrando l’Eucaristia, torniamo sempre alla notte in cui Gesù fu tradito e consegnato a morte da Giuda, Pietro, dai falsi testimoni e infine dal Sinedrio. La tradizione cristiana unisce questa notte della consegna con la preghiera del Salmo 88 mettendolo sulle labbra del Prigioniero per Amore. Fin dall’inizio, dal momento in cui è entrato nell’Orto degli Ulivi, Gesù è rimasto in preghiera. Grazie a ciò, in mezzo alle prove, come fece allora Abramo sul monte Moria, non si è concentrato sulla sofferenza, ma ha visto davanti a sé le braccia del Padre e ha ascoltato la sua promessa: „Tu sei il Figlio mio prediletto!” (Mc 1,11).

Durante venti secoli di cristianesimo, molti sacerdoti sono stati sottoposti a prove simili a quelle del loro Maestro. Le hanno vissute con dignità e coraggio grazie all’atteggiamento di preghiera e di affidamento a Dio. Uno di essi è menzionato da Benedetto XVI nell’enciclica Spe salvi:

„Dai tredici anni di prigionia, di cui nove in isolamento, l’indimenticabile Cardinale Nguyen Van Thuan ci ha lasciato un prezioso libretto: Preghiere di speranza. Durante tredici anni di carcere, in una situazione di disperazione apparentemente totale, l’ascolto di Dio, il poter parlargli, divenne per lui una crescente forza di speranza, che dopo il suo rilascio gli consentì di diventare per gli uomini in tutto il mondo un testimone della speranza – di quella grande speranza che anche nelle notti della solitudine non tramonta” (Benedetto XVI Spe salvi, 32).

Le parole della consacrazione iniziano con l’accettazione della logica della croce, con l’invito ad accettare una vita contro sé stessi. La prospettiva di essere completamente spogliati certamente ci scuote tutti profondamente. Stando sull’altare in persona Christi minuto dopo minuto ci immergiamo con Gesù nella Sua morte, ci rendiamo conto che quando „ha presentato il dorso ai flagellatori, non ha opposto resistenza” (cfr. Is 50, 6). Ci stupisce e nello stesso tempo di imbarazza l’obbedienza di Gesù Cristo. Tuttavia, diventerà un po’ più facile per noi da accettare se, celebrando il Santo Sacrificio, guardiamo la Passione del Signore con gli occhi del discepolo Amato. Nel Quarto Vangelo, l’ascesa di Gesù sulla croce ha il carattere di un’intronizzazione regale. S. Tommaso d’Aquino affermava che nel Vangelo di S. Giovanni, „Cristo invece dello scettro, porta la croce del suo supplizio” (S. Tommaso d’Aquino, Commento al Vangelo di S. Giovanni, 117.3). Questa prospettiva fa superare l’ansia. La Notte della consegna diventa l’inizio del processo in cui saliamo con Gesù sul trono della vita. Mettiamoci in cammino su questa difficile via „rivestiti di potenza dall’alto” – lo Spirito Santo (Lc 24,49), che ci insegna che „la speranza non delude” (Rm 5,5).

„Prese il pane, Ti rese grazie con la preghiera di benedizione”

Il Cenacolo ci richiamerà sempre il pane nelle mani di Gesù. Durante ogni Eucaristia condividiamo tra noi nella comunità il Pane degli angeli (cfr S. Agostino, Sermone 130, 2). Questo gesto ci spinge ad „essere buoni come il pane” – come ha detto il Fratello Sant’Alberto. Nello stesso tempo il segno del pane rivela ancora un altro aspetto, molto importante per noi sacerdoti. Come durante l’Ultima Cena Gesù prese nelle sue mani il pane per nutrire i suoi discepoli, così anche oggi prende ciascuno di noi sotto la sua responsabilità. Siamo pane nelle mani del Maestro. Questa è la più grande garanzia di sicurezza e accettazione che possiamo ottenere su questa terra. Nessuno e niente può strapparci dalle Sue mani:

„Io do loro la vita eterna. [Le mie pecore] Non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano” (Gv 10,28).

Cari confratelli, vale la pena guardare intensamente le mani di Cristo e rendersi conto che qualunque cosa ci accada nella nostra vita personale, nella quotidianità parrocchiale o durante il compimento di qualsiasi altro ministero, le Sue mani – amorevoli e forti – sono sempre per noi un porto sicuro. Solo noi stessi possiamo allontanarci da esse per il peccato, l’infedeltà, l’egoismo e l’orgoglio. Ma c’è sempre la via del ritorno. Le mani di Gesù sono aperte, costantemente pronte ad abbracciarci con un gesto di misericordia.

I nostri incontri personali con Gesù, che non si stanca mai di mostrare amore, rispetto e fiducia, dovrebbero suscitare gratitudine nei nostri cuori. Lo ha ribadito S. Giovanni Paolo II, rivolgendosi a noi:

„In ogni Santa Messa ricordiamo e riviviamo il primo sentimento espresso da Gesù nell’atto di spezzare il pane: quello del rendimento di grazie. La riconoscenza è l’atteggiamento che sta alla base del nome stesso di ‚Eucaristia’. Dentro quest’espressione di gratitudine confluisce tutta la spiritualità biblica della lode per i mirabilia Dei. Dio ci ama, ci precede con la sua Provvidenza, ci accompagna con continui interventi di salvezza” (S. Giovanni Paolo II, Lettera ai sacerdoti per il Giovedì Santo 2005, 2).

Gesù merita sempre il ringraziamento e la lode. Lui è stabile e immutabile nella benevolenza e nel donarci Sé stesso. Dalla sua pienezza continuamente riceviamo „grazia su grazia” (cfr. Gv 1,16). Anche quando si presentano circostanze mutevoli, difficili e impreviste, Egli è sempre „il datore di speranza” (cfr. Rm 15,13) e ci invita a „rendere grazie in ogni cosa” (cfr. 1Ts 5,18). Riconoscendo ciò, S. Giovanni Paolo II aggiunge:

„[Noi sacerdoti] abbiamo le nostre croci – e certo non siamo i soli ad averne! – ma i doni ricevuti sono così grandi che non possiamo non cantare dal profondo del cuore il nostro Magnificat” (S. Giovanni Paolo II, Lettera ai sacerdoti per il Giovedì Santo 2005, 2).

Durante la celebrazione dell’Eucaristia, prendiamo il pane tra le mani, ci inchiniamo e pronunciamo le parole di benedizione. In questo stiamo imitando Gesù. Il verbo greco eulogeo benedire, è composto da due parole: avverbio eubene e il verbo legodire. La prima cosa che il Signore fa è „bene dire „. Ci si può chiedere di chi e per chi Gesù ha bene detto? Sembra che bene dica di noi al Padre. Dopotutto, non è venuto „nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Gv 3,17). Il pane nelle mani di Gesù Cristo, segno della Sua vita donata per noi, rivela al meglio il contenuto della Sua benedizione: „Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (cfr. Gv 10,10).

In questo contesto, vale la pena pensare ai sentimenti e ai desideri che accompagnano noi sacerdoti quando, durante la consacrazione, invochiamo la benedizione di Gesù su di noi e sul pane. In quel momento come Cristo bene diciamo al Padre, delle nostre sorelle e dei nostri fratelli, tra i quali svolgiamo un servizio ministeriale? Bene diciamo della Chiesa, del Santo Padre, del proprio Vescovo, dei parrocchiani, delle famiglie, dei bambini, dei giovani, dei confratelli nel sacerdozio? Bene diciamo al Padre che è nei cieli, dei malati, dei poveri, degli esclusi, dei bambini non nati, e anche di coloro che sono stati sviati dal peccato ma che anche loro grazie al Battesimo appartengono alle nostre parrocchie? Infine, bene diciamo di coloro che non appartengono a Gesù, e magari ci perseguitano? Pronunciando la benedizione sul pane, siamo davvero pronti a consegnare tutta la nostra vita insieme a Gesù per la loro salvezza?

„Lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli”

Nel nostro cammino all’interno del mistero del Cenacolo, arriviamo al momento in cui Gesù „prese il pane, lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli” (cfr. Mc 14,22). Ripetiamo il segno dello spezzare del pane durante ogni Eucaristia prima della Santa Comunione. È molto importante che noi, come sacerdoti, compiamo questo gesto con cura e riverenza. Perché in esso è racchiuso il contenuto della missione di Cristo nel mondo e anche del nostro ministero. Spezzare il pane è espressione della disponibilità ad essere lievito di unità rinunciando alle proprie ambizioni, convinzioni, privilegi e desideri.

Questo spezzarci, di noi sacerdoti, è legato anzitutto alla scoperta delle vere intenzioni che accompagnano le nostre parole, le azioni e gli atteggiamenti. Il criterio ultimo delle nostre motivazioni rimane per sempre Gesù Cristo. Nella Domenica della Passione del Signore ascoltiamo con commozione le parole di S. Paolo nella Lettera ai Filippesi:

Gesù Cristo „pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò sé stesso, assumendo la condizione di servo” (Fil 2, 6-7).

La chiarezza delle nostre intenzioni consiste nel fare ogni cosa nello spirito di Cristo Servo. La mancanza di purezza consiste nell’avvalersi delle opere degli apostoli per i propri interessi o per il nostro tornaconto. Inoltre, non abbiamo sincere intenzioni quando perseguiamo il sacerdozio per essere notati dagli altri o quando siamo spinti dalla volontà di competere. Ad esempio, intraprendiamo attività in favore dei poveri o gli esclusi perché questo è „mediatico”, e allo stesso tempo esprimiamo critiche nei confronti di coloro che fanno altrettanto solo perché riescono meglio di noi o ottengono maggiore riconoscimento o pubblicità. Succede anche che non ci impegniamo troppo nel servizio pastorale perché non soddisfa le nostre aspirazioni e non porta benefici in misura delle nostre aspettative.

In questa fase successiva di formazione del sacerdozio in maniera eucaristica, ciascuno di noi deve sperimentare l’“essere spezzato”. Intendiamo l’”essere spezzato” come un cambiamento di mentalità e vivere un processo di costante purificazione e conversione. Senza questo, non siamo in grado di offrire sacrifici spirituali „graditi a Dio”. S. Paolo, riferendosi a questo aspetto della vita cristiana, utilizza un’altra immagine: il pane azzimo:

„Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi. E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato!” (1 Cor 5, 7).

In questo contesto, S. Paolo si riferisce anche agli scandali nella Chiesa, tali che non ne ha visti nemmeno tra i pagani. Di fronte agli atti vergognosi commessi da alcuni Corinzi, incoraggia l’ascesi a causa del Vangelo:

„Tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe con loro. (…) Però ogni atleta è temperante in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona corruttibile, noi invece una incorruttibile. Io dunque (…) tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù perché non succeda che dopo avere predicato agli altri, venga io stesso squalificato” (cfr. 1 Cor 9, 23-27).

Cari Confratelli, dobbiamo essere tutti spezzati da Gesù. Ciò è necessario affinché non siamo orgogliosi, ma riconosciamo umilmente e sinceramente la nostra personale ipocrisia e il peccato così come la mancanza di reazione, o almeno il tacito consenso, di fronte ai torti inflitti ad altre persone. Durante la liturgia che celebriamo ogni giorno, dobbiamo diventare questo pane azzimo, senza l’acido dell’ipocrisia, che si trasforma in ostia pura, santa e gradita a Dio. Gesù desidera che uscendo dalla scuola del Cenacolo distribuiamo Lui stesso, senza additivi, senza contaminazione. Il mondo ha sete del vero e buon Gesù.

„Prendete e mangiatene tutti, questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi”

Se permettiamo a Gesù di plasmarci nella scuola eucaristica abbiamo in noi anche il desiderio che le parole della consacrazione diventino la nostra personale „formula di vita”. Ciò è ben espresso nelle parole della prima Lettera di S. Giovanni Apostolo:

„Da questo abbiamo conosciuto l’amore: Egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli” (1 Gv 3,16).

S. Giovanni in questa breve confessione ha racchiuso tutta la logica della vita eucaristica e sacerdotale. La prima frase parla di ciò che noi stessi sperimentiamo e riceviamo quando offriamo il Sacrificio del Signore sull’altare. Riceviamo il dono dell’amore di Cristo e la vita dalla Sua vita. Questo avvenimento ci invita, a sua volta, a imitare il Signore, per così dire, „dall’altra parte dell’altare”, quando dopo la Santa Messa ci avviamo verso l’uomo:

„A questo infatti siete stati chiamati, poiché anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme” (1 Pt 2,21).

La natura della nostra missione sacerdotale, oltre che dall’”essere spezzati”, è definita anche dalle parole di Gesù: ‚Prendete e mangiatene tutti’. Per immersione battesimale, e poi per vocazione e ordinazione sacerdotale, non ci apparteniamo più:

„Nella vita e nella morte apparteniamo al Signore” (Rm 14, 8).

Scoprendo costantemente il significato di queste parole, leggendole in chiave eucaristica, impariamo la prima regola della crescita, che è del tutto antieconomica: quanto maggiore è la generosità nell’amore, tanto più ci perdiamo nel donarci, più in noi abbiamo vita. Un buon commento su questo principio sono le parole di Papa Francesco:

„Comunicandolo, il bene attecchisce e si sviluppa. Per questo, chi desidera vivere con dignità e pienezza non ha altra strada che riconoscere l’altro e cercare il suo bene. (…) La vita si rafforza donandola e s’indebolisce nell’isolamento e nell’agio. Di fatto, coloro che sfruttano di più le possibilità della vita sono quelli che lasciano la riva sicura e si appassionano alla missione di comunicare la vita agli altri” (Francesco, Evangelii gaudium, 9-10).

Gesù, parlando del ministero pastorale, usava il simbolo del buon e del cattivo pastore. Il cattivo pastore tratta le sue pecore in modo obiettivo, usandole per fare i propri affari. Invece il buon pastore vive per le pecore e secondo loro, perdendosi alla ricerca di spazi appropriati per farle vivere e sviluppare. Questa è proprio la differenza tra un buon pastore e un cattivo pastore: il prete. Un buon sacerdote dona sé stesso a disposizione di tutti senza favorire nessuno e senza creare la cricca degli adulatori. Questo modo di essere è possibile solo a condizione di identificarsi con le parole di Gesù: „Prendete e mangiatene tutti”.

Cari confratelli, la nostra vocazione è un grande dono e mistero, ma anche una sfida e un compito. Come durante la Santa Messa il pane si trasforma per opera dello Spirito Santo nel Corpo del Signore e il vino nel Sangue del Signore, allo stesso modo l’assemblea eucaristica dovrebbe trasformarsi nel vero Corpo di Cristo. Dobbiamo ricordare che i primi ad essere trasformati dall’Eucaristia sono i sacerdoti. Questa gerarchia non deriva da un clericalismo mal inteso, ma dalla vicinanza del sacerdote e dal sacrificio compiuto. Il Cenacolo ci mostra molto chiaramente che siamo in prima linea tra coloro che devono essere lavati da Cristo e trasformati dal Suo amore. Tuttavia, va sottolineato con forza che questa trasformazione deve essere opera dello Spirito, e non il frutto dell’ingegno del sacerdote, e ancor meno il risultato dell’applicazione di regole democratiche e dello svolgimento di una serie di votazioni in assemblea. Ne ha parlato Papa Francesco nel dicembre 2020:

In questo contesto, S. Paolo menziona anche gli scandali nella Chiesa tali che non ne ha visti nemmeno tra i pagani. Di fronte agli atti vergognosi commessi da alcuni corinzi, incoraggia l’ascesi per amore del Vangelo:

„Si deve smettere di pensare alla riforma della Chiesa come a un rattoppo di un vestito vecchio (…). Non si tratta di ‚rattoppare un abito’, perché la Chiesa non è un semplice ‚vestito’ di Cristo, bensì è il suo Corpo che abbraccia tutta la storia (cfr 1 Cor 12,27). Noi non siamo chiamati a cambiare o riformare il Corpo di Cristo – ‚Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e per sempre!’ (Eb 13,8) – ma siamo chiamati a rivestire con un vestito nuovo quel medesimo Corpo, affinché appaia chiaramente che la Grazia posseduta non viene da noi ma da Dio (…)” (Francesco, Discorso ai Membri del Collegio Cardinalizio e della Curia Romana, per la Presentazione degli Auguri Natalizi 2020, 8).

Dio desidera che attraverso la conversione e il lavoro ci impegniamo nel processo di edificazione del Corpo di Cristo. Ciò che dovrebbe avvicinarci e unirci è l’unica fede. Come sacerdoti, dobbiamo svolgere il ministero della riconciliazione. La forma eucaristica della nostra vita ci chiama ad una grande cura e impegno per la riconciliazione in tutte le possibili manifestazioni della vita ecclesiale e sociale. Invece, sembra che spesso noi stessi creiamo divisioni. Sovente il modo in cui ci accostiamo alla celebrazione dell’Eucaristia, e di conseguenza il divario tra liturgia e vita, diventa una negazione della sua essenza e causa di conflitti e scandali. Tra di noi sorgono controversie e divisioni, che a loro volta provocano forti ritorsioni. Non si tratta di diversità nella Chiesa, ma di esclusione di alcuni da parte di altri, di trincerarsi in campi opposti di tradizioni liturgiche, e perfino di azioni peccaminose o incompatibili con la dottrina e la Tradizione della Chiesa, il cui criterio sono unicamente ragioni e preferenze personali. Il Signore Gesù desidera la diversità nella Chiesa, ma – come ha detto Papa Benedetto XVI – essa deve diventare una „sinfonia di doni”.

„Fate questo in memoria di me”

Cari Confratelli Sacerdoti, le parole della consacrazione eucaristica si concludono con la chiamata di Cristo affinché la Chiesa si riunisca nella Memoria del Signore fino alla fine dei tempi. Non si tratta solo di ricordare gli eventi passati, ma di rendere presente nel nostro ‚qui e ora’ il Sacrificio della Croce, che ridona al Corpo di Cristo il giusto ritmo del cuore e fa ritrovare la giusta visione del corso della storia grazie alla luce che sgorga dal Risorto. Grazie a ciò, la celebrazione dell’Eucaristia diventa la più intensa attività di evangelizzazione diretta ad intra e ad extra della Chiesa:

„In realtà, il suo centro [dell’evangelizzazione] e la sua essenza è sempre lo stesso: il Dio che ha manifestato il suo immenso amore in Cristo morto e risorto. Egli rende i suoi fedeli sempre nuovi quantunque siano anziani, ‚riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi’ (Is 40,31). Cristo è il ‚Vangelo eterno’ (Ap 14,6), ed è ‚lo stesso ieri e oggi e per sempre’ (Eb 13,8), ma la sua ricchezza e la sua bellezza sono inesauribili. Egli è sempre giovane e fonte costante di novità” (Francesco, Evangelii gaudium, 11).

“Fare memoria” in senso passivo è lasciarsi plasmare da Gesù, lasciarci prendere ogni giorno nelle sue mani e trasformare ad immagine del suo cuore sacerdotale. A tale scuola veniamo introdotti dalle parole della consacrazione eucaristica. Si tratta di diventare nelle mani di Gesù ‚un sacrificio vivente, gradito a Dio’ e di permettergli di fare di noi e della nostra vita un altare su cui Egli potrà offrire ogni giorno il suo amore al mondo.

Inviati nella pace di Cristo

Celebrando l’Eucaristia, ci rendiamo conto che essa non si limita allo spazio sacro, né al rito sacramentale. C’è ancora un secondo atto di questo evento salvifico che abbraccia il nostro mondo quotidiano di relazioni, di scelte, di occupazioni, di lotte e di sofferenze. Papa Francesco al termine della catechesi sul mistero della Santa Messa ha detto:

„Attraverso l’Eucaristia il Signore Gesù entra in noi, nel nostro cuore e nella nostra carne, affinché possiamo ‚esprimere nella vita il sacramento ricevuto nella fede’ (cfr. Messale Romano, Colletta del Lunedì nell’ottava di Pasqua). Dalla celebrazione alla vita, dunque, consapevoli che la Messa trova compimento nelle scelte concrete di chi si fa coinvolgere in prima persona nei misteri di Cristo. Non dobbiamo dimenticare che celebriamo l’Eucaristia per imparare a diventare Uomini e donne eucaristici. Cosa significa questo? Significa lasciare agire Cristo nelle nostre opere: che i suoi pensieri siano i nostri pensieri, i suoi sentimenti i nostri, le sue scelte le nostre scelte” (Francesco, Udienza generale, 4 aprile 2018).

Uscendo dall’Eucaristia, siamo nella più profonda comunione con Cristo e con le nostre sorelle e i nostri fratelli. Siamo anche inviati a portare la pace nel mondo. Tuttavia, vale la pena ricordare che la pace del Signore non è un dono che gli altri devono meritare attraverso una vita buona, o che possono acquistare da noi con i mezzi a loro disposizione. La pace non è garantita dal regolamento dei conti, ma dalla generosità. La pace di Cristo è segno dell’amore fedele di Dio, che – come ha ripetuto più volte papa Francesco – „non si stanca mai di perdonare”. La pace che portiamo in noi dopo la Santa Messa è il frutto del nostro „passaggio” per le mani di Gesù, dell’accoglienza della logica della vita offerta, è espressione di disponibilità ad essere consegnato. È il dominio delle persone benedette che seguono Gesù nel bene dire al Padre dei fratelli e delle sorelle. È un dono dello Spirito per riconciliare le persone affinché il mondo somigli sempre di più alla casa del Padre, e non a una sala di torture infernali.

Il valore che ha per il mondo il dono della pace di Cristo si è reso evidente in tutta la sua forza negli avvenimenti recenti oltre il nostro confine orientale. Siamo colpiti dall’enormità della devastazione della guerra e dalla sofferenza di persone innocenti. Ci rendiamo conto di quanta crudeltà può portare il non ricordare che „c’è un”architettura’ della pace, nella quale intervengono le varie istituzioni della società, ciascuna secondo la propria competenza, però c’è anche un ‚artigianato’ della pace che ci coinvolge tutti” (Francesco, Fratelli tutti, 231). Allo stesso tempo in mezzo alle drammatiche circostanze, abbiamo visto il grande cuore degli uomini e delle donne polacchi che, ispirate dall’amore di Cristo, hanno spalancato le loro braccia a coloro che fuggivano davanti allo scoppio della guerra.

„Rendiamo sempre grazie a Dio ricordandomi di te nelle mie preghiere” (Fm 4)

Al termine di questa lettera, esprimiamo a Voi, Cari Confratelli nel Sacerdozio di Cristo, la nostra gratitudine per il fedele compimento del ministero nella Chiesa. Gli ultimi due anni sono stati segnati da una pandemia e dalla guerra a Est. Vi ringraziamo per essere rimasti nelle comunità di fede, nonostante le molte limitazioni e avversità. Per la celebrazione instancabile dei sacramenti, l’annuncio del Vangelo, il servizio tra i malati e le persone sole, la presenza negli ospedali, nelle case di accoglienza, nelle case di cura e nelle carceri. Grazie per tutto l’impegno nel campo della formazione cristiana, indipendentemente dal fatto che possa aver luogo nelle sale catechetiche, nelle case parrocchiali o in forma remota. Ringraziamo anche tutti coloro che portano su di sé la responsabilità delle opere caritative, in particolare dell’organizzazione dell’assistenza ai malati e ai rifugiati. Siamo grati alle comunità, alle parrocchie e alle case religiose per la cordiale accoglienza di tutti coloro che, di fronte alle operazioni militari, hanno dovuto lasciare la loro Patria.

Assistiamo tutti alla lotta che perdura nel mondo per l’uomo e per la sua anima. Viviamo in tempi in cui sta diventando sempre più difficile scorgere il vero volto di Dio. È deformato nel messaggio sociale, fortemente ideologizzato, che viene spesso utilizzato da vari individui e aziende come strumento per fare affari. Ma la bellezza del volto di Dio è distorta anche dai nostri peccati e dall’immaturità nella fede. Di fronte ai fatti vergognosi che ora si manifestano in tutta la loro forza, dobbiamo intraprendere un percorso di compassione verso le persone che sono state ferite, persuadere gli autori di questi atti a riparare i torti causati e, come Chiesa, pentirci e convertirci. L’Eucaristia può essere per noi fonte di forza e di speranza e plasmarci sulla misura di Gesù Cristo.

Affidiamo il vostro servizio sacerdotale nella Chiesa e nel mondo alla protezione di Maria, che S. Giovanni Paolo II definì col magnifico nome di „Donna Eucaristica”. Ha scritto di lei:

„Chi più di Maria può farci gustare la grandezza del mistero eucaristico? Nessuno come Lei può insegnarci con quale fervore si debbano celebrare i santi Misteri e ci si debba intrattenere in compagnia del suo Figlio nascosto sotto i veli eucaristici” (S. Giovanni Paolo II, Lettera ai sacerdoti per il Giovedì Santo 2005, 8).

Maria, Madre dei Sacerdoti, interceda per Voi, e specialmente per coloro che portano la croce della sofferenza, che si trovano nella notte del dubbio, o che si confrontano con crisi personali. Vi preghiamo, ciascuno di Voi porti nel proprio cuore sacerdotale le parole di Gesù pronunciate nell’ora della Croce: „Ecco tua madre!” (Gv 19,27) e le parole di Maria a Cana in Galilea: „Fate quello che vi dirà!”. (Gv 2,5).

Invocando l’intercessione di Maria – Madre dei sacerdoti, Vi benediciamo con tutto il cuore, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

Firmata: I Pastori della Chiesa in Polonia
riuniti per la 391.ma Sessione plenaria della Conferenza Episcopale Polacca
Varsavia, 14 marzo 2022.

(Tradotto dal polacco da M. Olmo / Ufficio per le Comunicazioni Estere della Conferenza Episcopale Polacca)